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I dolori del giovane laureato

Prendo spunto da un articolo apparso sul Corriere della Sera, la “storia di un giovane brllante laureato disoccupato“. Se fossi un giornalista, magari di una delle maggiori testate o di un’importante emittente televisiva, sarebbe facile, comodo e politicamente corrente cavalcare l’onda del malcontento, offrendo la mia pietà e compassione ai poveri giovani laureati che non trovano lavoro. Ma non sono un giornalista, e della pietà ipocrita non so proprio che farmene.

Dopo essermi laureato in Ingegneria, io, come moltissimi dei miei colleghi, abbiamo trovato in tempi rapidissimi un lavoro, se non addirittura siamo stati chiamati direttamente dalle aziende. Personalmente non posso dire di aver brillato durante gli studi, sono uscito con una votazione onesta, che ha riflettuto sicuramente l’impegno e il sudore versato sui libri, ma purtroppo senza riuscire ad ottenere il massimo dei voti. Di questo a volte un pò dispiace, ma più di così non sono riuscito a dare, almeno in ambito accademico.

Oltre me, so per certo che tutti, e dico il 100% dei miei colleghi, entro tre mesi dalla laurea hanno trovato un impiego, quasi sempre nell’ambito dei propri studi. Certo, all’inizio tutti facciamo la gavetta, qualcuno è andato, con successo, all’estero, dove si sta creando una propria carriera assolutamente invidiabile. Nessuno di essi si è mai lamentato di non aver trovato un lavoro o di lavorare in un campo diverso dal proprio.

Io, caso non molto frequente, ho frequentato per un certo periodo, senza conseguire la laurea, un’altra facoltà, quella di Filosofia. Ho avuto modo di sostenere e assistere esami di Facoltà in qualche modo affini, come Lettere, Storia e Pedagogia.

Bene, la differenza è una sola, ma pesante come un macigno. Chiunque vada all’università e sia onesto con se stesso lo sa, anche se non lo ammetterebbe mai, soprattutto con i propri genitori, parenti e amici che non studiano: nelle facoltà umanistiche, in genere, i voti sono molto generosi. E per generosi intendo che ad esempio a Filosofia, il 30 è considerato la norma, un 28 è un votaccio, spesso rifiutato. Quando poi per preparare l’esame a volte basta una settimana di studio, qualcosa non quadra. Ricordo che per strappare un 24 ad Analisi Matematica ci stetti sopra circa 6 settimane, full time e senza week-end, ma probabilmente sarò uno stupido io.

Le aziende, qualunque azienda, hanno come fine ultimo il lucro. Non è dettato dal cinismo o dalla mancanza di etica, è un semplice dato di fatto. Un imprenditore o un gruppo di imprenditori creano un’azienda per fini di lucro. Poi naturalmente l’azienda può avere una visione, una mission, tutte belle cose per mascherare il puzzo della pecunia ai nasi più delicati, quelli che vivono a spese altrui, molto probabilmente.

In Italia la situazione è drammatica, e la colpa andrebbe divisa tra diversi attori: da una parte senza dubbio molte, moltissime aziende, dalle micro imprese familiari alle grandi multinazionali, senza distinzione, traggono vantaggio dal sistema lavorativo formato da molti contratti atipici, scaricando il rischio imprenditoriale sulle spalle dei lavoratori più giovani.

Dall’altra parte però c’è un esercito di incompententi arroganti, gente che ha la laurea e crede di aver scalato la montagna, di sedersi a godere dei frutti del pezzo di carta. Questa è una visione nata dal clientelismo dei decenni scorsi, magistralmente raccontata da Monicelli nel film “Un laureatoborghese piccolo piccolo”, dove il pezzo di carta era necessario per poter accedere ai concorsi pubblici e, una volta entrati, non dover più rendere conto del proprio lavoro per il resto della vita.

Nelle imprese private, soprattutto se piccole, questo modus operandi non è tollerabile. Un dipendente che costa all’azienda 100, deve creare reddito almeno per 150, altrimenti verrebbe meno il senso della sua occupazione. Se poi c’è molta offerta di personale per una posizione non specializzata, allora l’azienda si orienta sulla persona che costa meno, per massimizzare il lucro. Nessuna retorica, nessun problema morale, come ho scritto sopra e come si trova scritto in qualunque manuale base di economia, il fine di un’azienda è il lucro.

Esistono naturalmente casi inversi: in italia esistono approssimativamente 500 persone esperte in SAP, un applicativo usato da aziende di medio-grandi dimensioni. La richiesta è per almeno 7000 specialisti, lasciando quindi un gap che viene colmato da personale estero. L’esperto SAP viene pagato mediamente 400 euro al giorno, e per averne la consulenza spesso è necessario mettersi in lista d’attesa. Non voglio parlare poi degli artigiani, in Italia nel 2011 il mestiere più richiesto era l’installatore di porte e finestre, anche perchè trovarne uno bravo è un’impresa epica.

Sappiamo tutti che l’università italiana non insegna a lavorare, offrendo solo una preparazione teorica. Quello che non tutti sanno, e che molti imparano sulla propria pelle molto tempo dopo, è che l’università non insegna nemmeno a vivere. Un laureato può contare solo sul colpo di fortuna o su conoscenze extra accademiche, se è particolamente zelante può scegliere di fare un tirocinio (in moltissime facoltà facoltativo) presso un’azienda.

Nel mondo anglosassone il tirocinio è un elemento chiave, è il battesimo del fuoco dell’età moderna, segna il passaggio dal nido (studio) alla vita (lavoro), la prima cosa che un’azienda inglese o americana chiede al candidato è dove lo ha svolto.

Naturalmente non pretendo che tutti gli studenti italiani vadano ad Ingegneria, è giusto che ognuno segua i propri sogni e le proprie inclinazioni, sempre però che queste non siano dettate dalla pigrizia (“in quale facoltà si studia di meno?”, sentita con queste mie orecchie) o da altro che non sia l’onestà verso se stessi e dalla voglia di dare il proprio massimo.